La scorsa settimana abbiamo parlato del ruolo determinante che hanno lo studio del paesaggio e l’ispezione diretta del territorio nelle indagini archeologiche moderne. Quest’oggi invece ci spingeremo un po’ indietro nel tempo e andremo a vedere come condussero la ricerca sul territorio i primi italiani che esplorarono l’isola di Creta tra il 1884 e il 1899. Va detto, innanzi tutto, che a quei tempi la vita sull’isola non era affatto semplice per un esploratore straniero. Era un’epoca in cui alle difficoltà negli spostamenti si potevano opporre soltanto le proprie gambe, un mulo oppure, per pochi fortunati, un cavallo. Inoltre, le violente vicende legate alla rivolta cretese contro il dominio turco consigliavano di muoversi per il territorio con grande prudenza e, soprattutto, ben armati (famosa la foto di Halbherr con la pistola sulla cintola!) a causa della presenza di bande di violenti dissidenti politici completamente fuori controllo.
Era il 1884 quando l’epigrafista roveretano Federico Halbherr, padre dell’archeologia italiana a Creta, raggiunse quest’isola per la prima volta, dando inizio alla lunghissima stagione di ricerche archeologiche che videro la partecipazione di molti dei più noti studiosi e archeologi italiani di tutti i tempi. Tra questi, oggi, vogliamo parlarvi di una figura meno nota ai non addetti ai lavori, ma che per molti versi può considerarsi uno dei primi archeologi ‘moderni’ che calcarono la terra di Minosse: Antonio Taramelli (Fig. 1).
Giunto a Creta nel 1894 su invito del suo maestro L. Pigorini, con l’incarico di indagare le cosiddette ‘acropoli micenee’ (come allora venivano comunemente chiamati i siti che tradivano frequentazione antecedenti alla fase classica), Taramelli può definirsi il primo archeologo preistorico di formazione a entrare a far parte del gruppo di italiani che lavoravano a Creta.
Nella sua pur breve esperienza cretese, chiusasi prematuramente a causa della malaria (…ci siamo dimenticati di dirvi, infatti, che oltre alle strade dissestate e ai briganti che caratterizzavano molte zone di Creta, l’area di Festòs aveva l’ulteriore “pregio” di essere anche una pericolosa zona malarica…), Taramelli riuscì a compiere notevoli scoperte, tra le quali bisogna sicuramente annoverare uno dei luoghi di culto più importanti dell’Età del Bronzo: l’antro di Kamares (Fig. 2-3).
Situato nel cuore dell’isola, presso le pendici meridionali del monte Ida, lì dove il massiccio si erge a formare le immense corna che dominano la pianura della Messarà e incombono sul palazzo di Festòs, questo straordinario antro fu oggetto di depositi votivi per millenni; qui, su indicazione dei contadini locali, scavò il Taramelli, portando alla luce un’ingente quantità di magnifica ceramica, nota oggi, per l’appunto, come ‘Ceramica di Kamares’ (Fig. 4): per gli studiosi essa è la ceramica minoica per eccellenza, prodotto degli abilissimi vasai del primo palazzo di Festòs.
Alla sensibilità e all’intuito archeologico del Taramelli (chiunque legga i suoi scritti non può non cogliere una grande sensibilità per il dato topografico e territoriale, le robuste conoscenze di geologia, nonché la formazione da archeologo preistorico) non sfuggì lo stretto legame tra questa ceramica e quella rinvenuta mentre esplorava le pendici meridionali dell’altura più occidentale del comprensorio collinare di Festòs, che si estende a pochi chilometri a sud dell’antro: la collina del Christòs Effendi che il Nostro, insieme alla collina del palazzo, situato a soli 300 m più ad est, definiva “le acropoli” di Festòs (Fig. 5).
La scoperta del palazzo, pochi anni dopo, deviò per più di un secolo l’attenzione degli archeologi italiani, facendo cadere il Christòs Effendi nell’oblio. Solo le campagne di survey e scavo condotte tra il 2010 e il 2013 dall’equipe del Phaistos Project hanno potuto finalmente mettere in giusta luce il ruolo di questo colle nella storia dell’insediamento festio, dando ragione all’intuizione del Taramelli: il Christòs Effendi fu davvero l’acropoli di Festòs in età storica, sede, probabilmente, di un santuario dedicato alla dea Atena, e di un importante edificio pubblico, portato alla luce nei nostri scavi del 2013 (Fig. 6).
Se volete sapere come la tecnologia possa rivelarsi un fidato alleato nelle nostre ricerche e, in particolare, nello studio delle più antiche forme di scrittura esistite nell’Egeo, non perdete il prossimo appuntamento con L’archeologia italiana a Creta OGGI… parleremo di RTI! Cosa vorrà dire lo scopriremo insieme.
Claudia Palmieri
Taramelli A. 1899, “Ricerche archeologiche cretesi”, MonAnt 9, coll. 287-446.
Taramelli A. 1901a, “Cretan Expedition XIX. A Visit to Phaestos”, AJA 5/4, pp. 418-436.
..le “Atene” micenee sono molteplici e col dubbio se si tratti della stessa Atena o di Dee diverse …. ma far risalire una dea di questo genere fino all’ Età Minoica non è azzardato ? … Congratulazioni per il bel lavoro che fate.